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Paolo Becchi

Quale sistema elettorale per la riforma del Premierato?

Quale legge elettorale potrà adottare il Parlamento qualora la riforma fosse approvata in via definitiva?

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma 03 Aprile 2024

Vi invito a leggere queste proposte, che per quanto siano di carattere tecnico costituzionale, ci riguardano come cittadini. Alla luce del fatto anche che tali proposte, si stanno facendo strada all’interno degli apparati governativi, vista pure l’evidenza e la vetrina che il sole24ore mi sta offrendo negli ultimi tempi per tali argomentazioni.

La commissione affari costituzionali del Senato ha approvato in prima lettura il ddl di revisione costituzionale che prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, presentato dal Governo a firma Meloni-Casellati. Il testo iniziale ha subìto alcune modifiche e probabilmente altre ne subirà nel prosieguo dell’iter parlamentare previsto dall’art. 138 della Costituzione.

Ora il ddl passa all’aula del Senato e poi, se approvato, alla commissione affari costituzionali della Camera e successivamente all’aula, dove avrà termine la prima deliberazione (il ddl deve ovviamente essere approvato da entrambe le camere nel medesimo testo). Trascorsi almeno tre mesi, il testo licenziato in prima deliberazione (a maggioranza dei presenti) dovrà essere approvato in seconda deliberazione da entrambi i rami del Parlamento (prima in commissione e poi dall’aula) quantomeno a maggioranza dei componenti di ciascuna camera. In seconda deliberazione il testo può essere solo approvato o respinto, senza modifiche rispetto al testo approvato in prima deliberazione. Giunti a questo punto, se entro i successivi tre mesi ne facessero richiesta un quinto dei componenti anche di una sola camera, oppure cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali, la riforma dovrà essere sottoposta a referendum popolare di tipo confermativo (senza quorum costitutivo). Se invece in seconda deliberazione il testo fosse approvato da entrambe le camere a maggioranza dei due terzi dei componenti (non è questo il caso), la riforma si intende approvata senza procedere a referendum.

Uno dei nodi cruciali della riforma è, a nostro avviso, quello del sistema elettorale con cui eleggere il Presidente del Consiglio e le Camere. La versione originaria del ddl Meloni-Casellati, come è noto, aveva introdotto in Costituzione un premio tale da garantire “il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere”. La cosa aveva suscitato più di una critica e, per questa ragione, il testo è stato emendato dalla commissione affari costituzionali del Senato eliminando quella percentuale numerica e inserendo in Costituzione soltanto il riferimento a “un premio su base nazionale”.

L’emendamento approvato conferma la costituzionalizzazione del sistema elettorale maggioritario (garantendo pur sempre la rappresentatività) e demanda alle Camere il diritto di scegliere i meccanismi elettorali ritenuti più idonei, ponendo come principio la necessità di dover garantire la formazione di una maggioranza solida in entrambe le Camere. Sarà dunque il Parlamento, se la riforma fosse approvata in via definitiva, a dettare le regole del gioco.

A questo punto ci si può porre la domanda: quale legge elettorale potrà adottare il Parlamento qualora la riforma fosse approvata in via definitiva? Le strade, secondo noi, sono due.

La prima. Nel sistema first-past-the-post, dove i seggi sono attribuiti ai candidati che – in ciascun collegio uninominale a turno unico – ottengono un solo voto in più rispetto agli altri, il premio di maggioranza potrebbe consistere nell’attribuire, alla lista che ha ottenuto più seggi, un ulteriore numero di scranni – che garantisca la maggioranza assoluta in entrambe le Camere – prendendoli dai migliori perdenti (cioè quelli arrivati secondi nei collegi uninominali) della lista medesima, fino al raggiungimento della soglia premiale stabilita per legge. Tecnicamente, per poter giungere all’applicazione del suddetto premio di maggioranza, i seggi assegnati col sistema first-past-the-post devono essere in numero inferiore a quelli di cui si compone ciascuna camera, lasciando che il numero dei seggi residui costituisca il premio di maggioranza da attribuire alla lista che ha ottenuto più seggi nel computo complessivo dei collegi uninominali. Nel rispetto della sentenza della Corte costituzionale n.1/2014, il premio di maggioranza troverebbe legittima applicazione solo se i seggi ottenuti dalla lista con più seggi fossero in numero non inferiore ad una soglia minima predeterminata per legge. Cosa accadrebbe se nessuna lista ottenesse la soglia minima di seggi tale da far scattare il premio di maggioranza? Si tratta di una ipotesi molto difficile da realizzarsi perché il sistema dei collegi uninominali a turno unico (secco, all’inglese) trasforma un sistema politico frammentato in bipolare. Sarebbe in ogni caso, a nostro avviso, da evitare il doppio turno di collegio, sistema che porta alla formazione di alleanze improbabili al secondo turno, alleanze che mirano a far perdere chi aveva ottenuto più voti al primo turno (le cosiddette alleanze ad excludèndum).

La seconda via praticabile è invece quella di un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza. Sul punto occorrerà tuttavia rispettare quanto statuito dalla Corte costituzionale non solo con sentenza n. 1/2014, ma anche con la n. 35/2017. In primis, il premio di maggioranza dovrà trovare applicazione in favore della lista o coalizione di liste arrivata prima, solo qualora questa abbia superato una soglia minima di voti predeterminata per legge. In caso contrario, non si potrà che procedere con la ripartizione dei seggi col solo sistema proporzionale. In secondo luogo, l’elezione dei membri delle Camere dovrà avvenire attribuendo all’elettore la facoltà di esprimere direttamente almeno una preferenza per i candidati, oppure attraverso i listini bloccati purché questi siano brevi ed i nominativi dei candidati siano espressamente indicati sulla scheda elettorale. Nodo ballottaggio. Per quanto concerne il sistema proporzionale con premio di maggioranza, si è visto che se nessuna lista o coalizione di liste raggiungesse una soglia minima di voti tale da legittimare l’applicazione del premio di maggioranza, la ripartizione dei seggi – per forza di cose – avverrebbe col sistema proporzionale puro.

Una ipotesi che mal di confà con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e con la necessità di garantire la formazione di una maggioranza parlamentare. Che fare allora? Una soluzione praticabile potrebbe essere quella di introdurre un secondo turno, vale a dire il ballottaggio tra le liste o coalizioni di liste arrivate prima e seconda nella contesa del primo turno. A tal riguardo occorrerebbe tuttavia rispettare quanto statuito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 35/2017, cioè consentire il secondo turno solo qualora al primo turno le liste o coalizioni arrivate prima e seconda abbiano raggiunto una percentuale minima di voti che ne legittimi l’accesso al ballottaggio.

Riteniamo possibili entrambi i sistemi elettorali, purché vengano rispettate le decisioni finora assunte dalla Corte costituzionale. Partire col piede sbagliato non converrebbe a nessuno.

Due anni di indagini sul prof del tweet “nazista”. Ma sulla Di Cesare i giudici dormono

Paolo Becchi, 17 marzo 2024

Vorrei ricostruire quello che è successo ad un prof con un curriculum eccellente: basta un tweet a scatenare il suo nemico che, essendo padrone incontrastato dei mezzi di comunicazione, intende distruggergli la reputazione per sempre. Anche se la ricostruzione della vicenda è particolareggiata vi prego di seguirla nei diversi passaggi sino al suo esito conclusivo. Ne vale la pena, credetemi.

Il 2 dicembre 2019 in seguito a questo tweet su Hitler: “Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri, che oggi vi governano dominando il mondo”, è iniziata una campagna diffamatoria da parte dei mezzi di comunicazione: telegiornale di Mentana, trasmissione televisiva dedicata al caso da Formigli in Piazzapulita su La7, tutti i giornali o quasi, in particolare quelli del gruppo Gedi. Il pugile dove essere suonato per bene. Il Rettore Frati di Siena, dopo aver prima dichiarato che “il prof. Castrucci scrive a nome proprio” cambia idea – la campagna diffamatoria aveva avuto il suo effetto – e annuncia “gravi provvedimenti” a suo carico da parte dell’Ateneo (sospensione dal corso e dagli esami, allontanamento cautelativo dagli studenti ecc.), preliminari alla richiesta di licenziamento che dovrà prima essere esaminata dal Senato Accademico.

Presenta inoltre denuncia alla Procura di Siena per “istigazione all’odio razziale aggravato da negazionismo”. La Procura di Siena fa allora partire l’istruttoria per il processo penale. Il prof avverte subito il pericolo imminente del licenziamento, gioca d’anticipo e chiede il pensionamento immediato. Una decisione rivelatasi saggia perché poco dopo il Senato Accademico dell’Ateneo di Siena decide per la pena massima della destituzione dall’insegnamento ma, visto il pensionamento ormai in corso, riconosce di non avere i mezzi per applicarla, cosicché la pena resta solo simbolica. Come che sia, una università ha deciso il licenziamento di un prof per aver espresso una opinione con un tweet. Pensaci un momento dai, anche se quel tweet ti fa venire l’orticaria (e a me la fa venire), si può arrivare a tanto?

Torniamo ora alla vicenda penale. Il Gip di Siena nega la richiesta che gli era stata presentata dalla Procura e dichiara che non ci sono le condizioni per procedere penalmente, visto che nel tweet in questione è presente semmai solo un giudizio positivo su Hitler e mancano gli elementi per configurare l’istigazione. La Procura di Siena però non molla, fa ricorso al Tribunale del Riesame, il quale la settimana successiva respinge la tesi del Gip e conferma l’ipotesi accusatoria della Procura. Il legale avvocato del Foro della Spezia fa trasferire nel gennaio del 2020 per competenza, in ragione del luogo della residenza dell’indagato, la causa penale da Siena a La Spezia, dove prosegue l’istruttoria. L’istruttoria dura per tre anni con diverse fasi presso il Tribunale della Spezia e si conclude a primavera 2023, con sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Tiri a questo punto un sospiro di sollievo, ma dura poco perché nell’ottobre del 2023 la Procura della Repubblica, rappresentata da una pubblico ministero onoraria (!), si dichiara insoddisfatta dell’esito della vicenda e fa appello contro la sentenza assolutoria di primo grado.

L’appello si dovrà svolgere presso la Corte d’Appello di Genova, competente per territorio. Il 12 marzo 2024 la Corte d’Appello di Genova, formata da un collegio di tre giudici togati, conferma la sentenza di primo grado ribadendo l’assoluzione con formula piena “perché il fatto contestato non sussiste”. Ci sono voluti circa quattro anni per chiudere questa vicenda. Trascuriamo gli effetti psicologici (confesso che al suo posto probabilmente sarei morto di infarto o forse avrei richiesto il suicidio assistito in Svizzera) e pure quelli monetari, che per noi liguri hanno sempre una importanza non secondaria e domandiamoci una cosa: perché tutto è iniziato? Semplicemente perché il malcapitato è stato massacrato da tutti gli organi di informazione schierati a sinistra, mentre a destra se ne sono ampiamente fottuti.

Ora solo due parole su una recente vicenda. Una prof ben nota e protetta da giornaloni e televisioni fa un tweet che potrebbe essere interpretato quasi come una apologia degli assassini di Moro. L’ Università prende le distanze, ma la cosa a quanto pare finisce lì, i giornali la intervistano e i programmi televisivi quasi la giustificano. Bisogna aprire il dibattito. Non risulta che la prof sia indagata per apologia di reato, né che l’Università abbia preso provvedimenti nei suoi confronti. Beninteso, sono ben felice che sia finita così per lei, che ai tempi di Castrucci con un tweet aveva chiesto il suo allontanamento dall’Università. Le opinioni finché restano opinioni dovrebbero essere libere. Per parte mia trovo odiosi i reati di opinione.

Ma trovo ancora più odioso che ci siano alcune opinioni che sono reati e altre no, che insomma la libertà di espressione dipenda dal fatto che sei di sinistra e allora puoi dire quello che vuoi o sei di destra e allora la persecuzione è assicurata. Unica consolazione, alla fine per il prof è stata fatta giustizia, ma è una magra consolazione, costretto alla pensione anticipata, all’esposizione per anni all’odio ideologico e col portafoglio saccheggiato.

Soltanto un papa può ancora salvarci

di Paolo Becchi

+++++ Attenzione +++++

Che i giornali italiani abbiano rifiutato questo pezzo è normale. Per loro la libertà di espressione è solo quella di Parenzo e di Molinari. Che questo articolo sia stato rifiutato anche da “Avvenire”, organo ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, questo è un brutto segnale per papa Francesco ( e per tutti noi).

Ha cominciato Macron non escludendo l’invio di truppe occidentali in Ucraina e ha continuato von der Leyen, dichiarando che la guerra, in Europa, non è imminente, ma non è neppure impossibile. Poi, tanto per rassicurarci, ci ha pensato il capo del Pentagono, dicendo che se l’Ucraina perde la guerra, i paesi Nato dovranno combattere contro la Russia. Difficile essere più chiari di così. E Macron ora insiste di nuovo con una folle propaganda di guerra e incontra Scholz. Il rischio di una escalation è sempre più grande. Vengono in mente le pagine di Karl Kraus di Die letzten Tage der Menschheit, la tragedia con la quale Kraus reagiva all’allucinatorio vocio, all’euforia per l’inizio della Prima guerra mondiale. Eppure, sembra incredibile: una guerra in Europa? Una nuova guerra, che rischia di divenire mondiale, è davvero una possibilità che Stati Uniti e Unione Europea stanno seriamente valutando, prendendo in considerazione?

Per quasi un secolo avevamo creduto che, dopo l’Olocausto e gli orrori della Seconda guerra mondiale, mai più i paesi europei sarebbero scivolati nell’incubo di un nuovo conflitto. Oggi tutto questo sembra dimenticato. Per gli americani, con i loro militari ricoperti di decorazioni, che non somigliano più ai folli generali dei film sul Vietnam, quanto ai freddi burocrati del recente film di fantascienza The Creator, l’Europa è solo un piccolo spazio sulla scacchiera mondiale, un possibile “scenario” di guerra come altri, lontano da casa loro. E per noi? Forse non riusciamo neppure bene a rendercene conto, e quando von der Leyen parla di una guerra possibile contro la Russia ce la immaginiamo, al più, come una specie di videogioco, di conflitto a colpi di droni senza morti e feriti in trincea. Sbagliamo, ovviamente. Stiamo lentamente scivolando – da entrambe le parti – su una china estremamente pericolosa senza quasi che ce ne accorgiamo ma se continua così arriveremo in fondo alla china e alla fine ci attende la catastrofe nucleare.

Non è la prima volta che siamo stati sull’ orlo dell’ abisso. La crisi dei missili cubani rischiò davvero di far precipitare il mondo in un’apocalisse nucleare. Ce lo siamo forse dimenticati, come ci siamo dimenticati del fatto che allora un grande pontefice, con altrettanto grande abilità, contribuì a disinnescare la miccia. Giovanni XXIII riuscì – non solo attraverso il suo appello pubblico – a “salvare la pace” nel mondo. Ci riuscì puntando sul fatto che John Fitzgerald Kennedy era il primo Presidente degli Stati Uniti di religione cattolica.

E oggi? Anche l’inquilino attuale della Casa Bianca è un cattolico ed è un particolare che papa Francesco non dovrebbe trascurare. Il papa, infine, ha parlato. Un antidoto al “vocio” di oggi. E non ha detto, in sé, nulla di sbagliato. La guerra gli ucraini la stanno perdendo davvero. Il pontefice ha detto quello che tutti sanno ma che nessuno ha il coraggio di dire. Lo ha detto, però, nel modo sbagliato, dando cioè l’impressione di chiedere semplicemente la resa incondizionata degli ucraini. In realtà ha esplicitamente parlato di “negoziato”, ma le polemiche sono comunque divampate. Forse l’errore è stato quello di aver dato l’impressione di parlare come un leader politico, e non come il rappresentante di una cristianità che, dopotutto, continua ad essere il più profondo e radicato legame tra Europa e Russia. Certo, chiese diverse, cattolicesimo romano e ortodossia, ma Mosca è pur sempre la Terza Roma. O quella di Francesco voleva essere una provocazione, per aprire il negoziato? Dire che la bandiera bianca è “coraggiosa”, significa dire l’esatto contrario della logica sostenuta da von der Leyen: ossia che prolungare questa guerra non preparerà affatto ad una nuova pace e che solo la pace può scongiurare una nuova guerra, quella che Francia e Germania stanno di fatto non più escludendo contro la Russia.

“Nur noch ein Gott kann uns retten”, diceva Martin Heidegger nella sua ultima intervista. Oggi possiamo forse dire: “Soltanto un papa può ancora salvarci”.

I dolori di Salvini

Paolo Becchi, 11 marzo 2024

Meloni può tirare un respiro di sollievo e considerare quello che è successo in Sardegna un piccolo incidente di percorso. In Abruzzo ottiene un buon risultato.ì Ma la vera sorpresa è Forza Italia, Tajani forse non sarà il massimo in politica estera ma governa il suo partito e lo fa crescere nonostante la morte di Silvio Berlusconi. Tanto di cappello: uscito confermato dal Congresso incassa un risultato positivo.

La Lega di Salvini invece è in difficoltà. Chi lo nega nasconde l’evidenza dei numeri. C’è un malessere crescente e il segretario pare disorientato. Prima avanza l’idea del Congresso, poi torna sui suoi passi e rinvia. Eppure sarebbe il momento di agire perché un risultato deludente alle Europee potrebbe avere una conseguenza fino a poco tempo fa impensabile: non la Lega che si “mangia” Forza Italia, ma Forza Italia che si “mangia” la Lega.

Ormai il Carroccio al Sud non esiste più. Una Lega Salvini premier di fatto non esiste più. Il “Capitano” ne prenda atto e con un Congresso indichi un cambiamento di rotta, ripartendo dal Nord. O Salvini cerca di riconquistare il Nord in questi mesi o dopo le Europee una nuova forza gli farà concorrenza in casa. E allora sarà la fine di un partito, il più “vecchio” oggi in parlamento che il vicepremier certo ha fatto una volta rinascere ma che ora sta perdendo giorno dopo giorno terreno. È insomma il momento di agire: meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine.

Conti correnti, quant’è l’aumento dei soldi grazie al deficit

Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, 7 marzo 2024

Prima del Covid la differenza tra entrate e uscite in Italia era -67 miliardi (deficit), la differenza è esplosa a -228 miliardi nel 2020, ma anche nel 2023 è stata di -153 miliardi. Il governo parlava di deficit sul 5%, ma è risultato attuale è sopra il 7%. Con queste centinaia di miliardi in più, però i governi hanno fatto bella figura, mostrano occupazione e Pil aumentati e non ci si lamenta dell’economia come negli anni dell’austerità (salvo ovviamente chi ha reddito fisso non indicizzato e ha subìto l’inflazione).

Le entrate e le uscite

Il segno -153 miliardi saldo entrate – uscite vuole dire che lo Stato nel 2023 ha tassato 153 miliardi di meno di quanto spendeva. Oddio! Calma, nell’economia moderna dove uno paga e segna meno nel suo saldo, un altro riceve e segna più nel suo saldo in banca. Questi -153 l’anno scorso erano +153 miliardi in qualche modo nell’economia. Che infatti è migliorata. Lo senti dire sui giornali e in tv? No, ma è per questo scriviamo.

Questi miliardi del deficit non spariscono infatti come penseresti leggendo i prof di economia, li ritrovi nei conti correnti, di risparmio e titoli delle banche (ok, una parte è finita all’estero per il gas…). Cioè anche se li sprecano se vogliamo in molti casi (vedi le “facciate” del superbonus), i soldi creati dal deficit poi appaiono in banca come “risparmi” di qualcuno (salvo quelli dati a Zelensky…). E poi con quei soldi compri BTP e il cerchio si chiude.

Chi ha ricevuto in Italia questi 350-400 miliardi circa addizionali (rispetto al pre-Covid) li spendeva e poi giravano, fino a quando non arrivavano a qualcuno che invece li ha accumulati. Per cui poi questi miliardi in più della norma di deficit, meno circa, forse 100 miliardi finiti all’estero, li vedi in un aumento di circa 350 miliardi ora nei conti in banca. È una coincidenza che lo Stato faccia deficit addizionali di 450 miliardi e togliendo le maggior importazioni di energia e i soldi a Zelensky i conti in banca aumentino della stessa cifra? No. È una identità contabile.

Miliardi nei conti corrente

Il deficit pubblico funziona così. Non come raccontano i prof di economia sui giornali per i quali è come se i soldi sparissero in un buco. È invece sempre un circuito in cui crediti e debiti si compensano in banca. Il problema è solo a chi vanno i soldi, non che manchino i soldi. Il debito pubblico diventa un problema se ti costringe ad alzare i tassi per convincere il pubblico a comprare poi i titoli, ma la Bce dal 2014 ha comprato 700 miliardi di titoli quando teneva i rendimenti sotto l’1% e nessuno li voleva tra i risparmiatori. Se non ci fosse stata la Bce e l’euro, avresti svalutato la moneta? Probabile, ma tutto il mondo ha fatto lo stesso, per cui in realtà neanche svalutavi perché devi svalutare rispetto a qualche altro paese che non fa deficit e tutti lo fanno.

Questi 450 miliardi addizionali di deficit comunque spiegano perché l’economia sia migliorata. I prof di economia parlano sempre di “produttività”, ma nella realtà sono i soldi creati e che girano che contano più di tutto. Negli ultimi tre anni la produttività è migliorata? Ovvio che no con il lavoro a distanza. Si lamentano dei deficit che sono esplosi mentre spiegano che l’economia è migliorata e non sono capaci di fare 1+1 = 2.  Perché sono queste centinaia di miliardi che l’hanno mossa.

Il voto in Sardegna: un voto contro Meloni

Nessuno, diciamolo con franchezza, se lo aspettava. Ed è accaduto quello che tutti ritenevano impossibile. Oggi molti diranno e va beh non cambia nulla: è solo un voto regionale. Eh no, cambia tutto. Questo è chiaramente un voto non per qualcuno ma contro qualcuno: è un voto non contro il centrodestra, ma contro Meloni. I sondaggi dicono che no, che le è sempre in salita? I sondaggi davano anche quattro punti di distanza per il candidato scelto da Meloni in Sardegna: una vittoria sicura. Gli italiani, di fronte all’idea che la loro casa è ora diventata l’Ucraina e che combatteremo al fianco di Zelensky per i prossimi dieci anni, hanno cominciato a temere il peggio per loro e per i loro figli e allora hanno voluto mandare un messaggio forte alla persona a cui avevano dato con il voto alle ultime elezioni tanta fiducia: così non va. Meloni si occupi prima di tutto degli italiani realizzando le promesse elettorali: prima fra tutte quella del controllo della immigrazione clandestina. Ora sta a lei capire l’umore popolare e tenerne conto o fare finta di niente e andare avanti come se non fosse successo niente. Nel primo caso mostrerà intelligenza politica, e Meloni sicuramente ne ha, nel secondo questo voto indicherà l‘inizio del suo lento ma inesorabile declino. Non si governa in democrazia contro il sentire popolare, tanto più nella società liquida, in cui anche il voto è diventato fluido. Un italiano su due non vuole la continuazione di questa guerra, con il rischio sempre più reale di un coinvolgimento diretto. Non è per questo che gli italiani l’hanno votata. Sarebbe un errore far finta di niente. L’arroganza del potere ha già fregato Renzi. Le elezioni europee saranno la cartina di tornasole. Non solo per lei ma anche per Salvini che può rientrare in partita adottando un programma in cui il „prima l‘Italia“, anche in Europa, torni di attualità. Prima gli italiani e i popoli europei, contro lo strapotere guerrafondaio di Bruxelles. Salvini ha già di fatto portato a casa l’autonomia differenziata e per questo le Regioni del Nord lo ripagheranno alle elezioni europee. Il premierato invece è in alto mare e ora lo sarà ancora di più, perché questo voto ha di fatto indebolito Meloni. La prossima mossa tocca a lei, e più che spostarsi sul piano internazionale andando a cercare consensi da Biden, potrebbe puntare proprio sul premierato giungendo ad un accordo con una parte dell’opposizione che tutto sommato è facile da trovare.

No, Navalny non è morto per un pugno (lo dice l’Ucraina)

Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, 26 febbraio 2024

Come mai il capo dei servizi di intelligence ucraini dichiara ai giornalisti che Alexej Navalny non è stato ucciso, ma è morto per un trombo? Kyrylo Budanov ha risposto ai giornalisti dicendo: “Spiace deludervi, ma per quanto ne sappiamo, Navalny è effettivamente morto a causa di un coagulo di sangue.”

È abbastanza clamoroso no? Come mai i media occidentali, americani, inglesi, italiani fanno finta di non averlo sentito, anche se è un video disponibile da giorni, in ucraino, ma tradotto in inglese?

L’intelligence ucraina è probabilmente meglio informata di quella inglese, tedesca o americana, ma a dire la verità nessun servizio di intelligence occidentale ha affermato che Navalny sia stato avvelenato o ucciso in qualche modo. Inoltre, la madre di Navalny ha visto l’autopsia, ha parlato con i medici, ha ricevuto il corpo e non ha avuto niente da dire. Tra parentesi, sia la madre che l’avvocato lo avevano visitato il 12 e 15 febbraio e nessuno parlava di maltrattamenti di qualsiasi genere.

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Nel caso del giornalista americano a Karkov, Gonzalo Lira, arrestato due anni fa perché criticava il regime di Zelensky e fatto morire in prigione, la madre non ha visto nessuna autopsia, non ha visto il cadavere e ha dichiarato che le hanno impedito sempre di visitarlo e lo hanno fatto morire nel silenzio generale.

Può darsi che il capo dei servizi ucraini non dica la verità, del resto anche la CIA a volte forse non la dice, no?

Navalny era un nazionalista russo, per cui, anche se gli converrebbe allinearsi ai media occidentali e dire che è stato Putin ad avvelenarlo, un nazionalista ucraino come Budanov odiava Navalny più di Putin. Resta il fatto che secondo chi dovrebbe avere informazioni migliori di tutti, l’intelligence ucraina, Novalny sarebbe morto di morte naturale.

Come minimo però i media potrebbero riportare la notizia, così come i giornali italiani avrebbero potuto parlare del giornalista americano imprigionato in Ucraina. Così come potrebbero parlare del regime di terrore che ormai vige con la polizia e l’esercito che rapiscono al mattino quando vanno al lavoro giovani ucraini che non riescono a pagare le mazzette per evitare di andare a morire in trincea. Così come potrebbero notare che finora l’Italia ha stanziato circa 17-18 miliardi (cioè la nostra quota dei soldi stanziati dalla UE) per il regime di Kiev e con il nuovo Trattato ci impegniamo a farlo per i prossimi dieci anni.

Perchè il premier che deve chiedere fiducia diventa più debole.

Un Premier più debole dell’eventuale Premier subentrante? 

di Paolo Becchi il 10 febbraio 2024 su il sole 24ore

La discussione sul ddl Meloni-Casellati continua. Vorrei qui richiamare l’attenzione su un punto importante. Il ddl prevede che il Presidente del Consiglio eletto, entro dieci giorni dalla nomina da parte del Presidente della Repubblica, debba presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia. Tutto esattamente come accadeva prima. L’ unica novità sta nel fatto che se la fiducia non fosse accordata il Presidente della Repubblica dovrebbe conferire l’incarico di formare il governo nuovamente al Presidente del Consiglio eletto e, se la fiducia non fosse accordata neppure in questo secondo caso, il Capo dello Stato deve procedere allo scioglimento delle Camere e di conseguenza indire nuove elezioni. Trascuriamo qui pure il fatto che lo stesso ddl prevede un meccanismo elettorale – del tutto discutibile e che è stato sottoposto ad una valanga di critiche – per cui quest’ultima circostanza sarebbe impossibile da verificarsi. Il ragionamento che qui bisogna fare è di altro genere. La domanda da porsi è la seguente: è necessario un voto di fiducia iniziale?

Sindaci e Presidenti di Regione sono eletti a suffragio universale diretto, ma non devono ottenere alcuna fiducia iniziale da parte rispettivamente del Consiglio comunale o regionale, stante appunto la loro investitura diretta da parte del corpo elettorale, non si capisce allora per quale ragione un governo presieduto da un Presidente del Consiglio eletto a suffragio universale diretto abbia bisogno della fiducia iniziale del Parlamento. Di fatto l’ha già ottenuta dal popolo sovrano, ne avrebbe semmai bisogno il candidato che è stato eletto solo come parlamentare e non come Presidente del Consiglio e che dovrebbe eventualmente sostituirlo.

Il premier eletto è molto più debole di un premier non eletto subentrante. Questo è il punto dolente che l’emendamento Calderoli non risolve.  Il premier può cadere, se infatti mette la fiducia (cosa che accade spesso)e la perde le sue dimissioni non sono volontarie, egli è obbligato a darle, aprendo così la strada ad un premier subentrante neppure eletto. Non va. Non può andare sotto il profilo costituzionale, nonostante alcune rassicurazioni interpretative che, a mio avviso, non convincono.

Il punto politico (oltre che tecnico) è il seguente: siamo d’accordo che il Premier battuto sulla fiducia possa chiedere elezioni anticipate, sì o no?  Se lo siamo la soluzione si trova. Ad esempio, anche se non è la formulazione più logica e più felice, quella minimalista consisterebbe nel togliere l’aggettivo “volontarie” al sostantivo dimissioni. Così in tutti i casi di dimissioni il Premier potrebbe sciogliere. Si può certo fare tecnicamente di meglio, seguendo ad esempio il Grundgesetz tedesco, ma alla fine, si decida politicamente se si vuole davvero, come nel testo attuale modificato dagli emendamenti, un Premier eletto più debole di quello non eletto. Si parli chiaro e ogni forza politica si assuma le sue responsabilità.

Il fatto è che, più in generale, si insiste sempre e soltanto sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, senza però attribuirgli più poteri di quelli che ha ora: questo resta il difetto iniziale del ddl, a cui non si riesce ancora a trovare un rimedio. Sarebbe sufficiente una legittimazione diretta, senza un’elezione diretta, perché un Primo ministro non può avere i poteri di un Sindaco o di un Presidente della Regione, ma dotandolo di potere reali e senza    alcun voto di fiducia iniziale. Il Premier deve certo avere una maggioranza solida per poter governare e questa maggioranza gli deriva dal voto che ha avuto: una maggioranza assoluta o, nel caso questa maggioranza non sia assoluta, un sistema elettorale che preveda l’uso del ballottaggio. Da qui bisogna ripartire evitando il muro contro muro.

“Ilaria Salis in catene”: perché l’Ungheria ce l’ha con la detenuta italiana

Paolo Becchi, 29 gennaio 2024

Nessuna persona soggetta a indagine deve essere trattata come un cane. Questo sia ben chiaro sin dall’ inizio. Vorrei tuttavia ricordare alcuni elementi, di cui mi parrebbe importante tener conto.

Nell’ottobre 2023 la Procura generale di Budapest ha annunciato in un comunicato di aver sporto denuncia contro tre cittadini stranieri che, secondo l’accusa, avrebbero partecipato come membri di un’organizzazione politica ad attentati a Budapest avvenuti nel febbraio 2023, per un totale di 9 vittime di aggressione violenta.

Secondo l’accusa, un tedesco – ricercato in Germania con emissione di mandato d’arresto europeo – insieme alla sua compagna, a partire dal 2017 avrebbe creato a Lipsia questa organizzazione politica con finalità criminali, di cui sarebbe entrata a far parte anche Ilaria Salis. La Procura metropolitana accusa la donna italiana del delitto di tentata lesione personale con pericolo di vita commessa in quanto membro di tale un’organizzazione, mentre l’uomo tedesco e la donna di nazionalità tedesca vengono accusati del reato di partecipazione ad un’organizzazione politica con fini criminali.

La Procura Generale di Budapest propone inoltre di emettere mandati di arresto europei e internazionali nei confronti di altre 14 persone coinvolte nel caso (2 italiani, 1 albanese, 1 siriano e 10 cittadini tedeschi). I membri di tale organizzazione avrebbero convenuto che la lotta ideologica contro simpatizzanti di estrema destra dovrebbe essere condotta con violenza. Di conseguenza, hanno accettato di effettuare attacchi organizzati contro vittime di loro scelta, identificate o ritenute simpatizzanti di estrema destra. Il loro obiettivo era quello di causare ferite gravi alle vittime.

Tra il 9 e l’11 febbraio 2023 a Budapest si sono verificati complessivamente cinque attentati, nei quali sono rimaste ferite complessivamente nove persone. Il primo attacco è avvenuto su un treno alla stazione ferroviaria di Nyugati, il secondo a Fővám tér, il terzo e il quarto attacco il 10 febbraio a Gazdagréti tér e Bank utca, e il quinto l’11 febbraio a Mikó utca nel 1° distretto. Tra le vittime c’erano cittadini ungheresi e stranieri. Sei di loro hanno riportato ferite gravi, tre hanno riportato ferite lievi. Tra gli autori degli attentati secondo la Procura metropolitana ci sarebbe anche Ilaria Salis. Vale sempre il principio che ogni imputato è considerato innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata, ma l’accusa è pesante.

Ora, la mia impressione è che si voglia montare un caso contro Orbán e il presunto autoritarismo vigente in Ungheria, in un momento in cui il Primo ministro ungherese si sta opponendo con tutte le sue forze ad un nuovo invio di armi in Ucraina e la Ue minaccia ritorsioni contro il popolo ungherese. Ma di tutto questo nei giornali italiani non c’è traccia.

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